Descrizione
foto 1: mulino cinto mappa del 1590 della chiesa e del mulino di cinto
Nel 1498 fu acquistato dalla famiglia patrizia veneziana Giustinian, il ramo detto dei vescovi, e da questi proprietari viene ristrutturato e potenziato: in una mappa del 1590 esso si presenta con un fabbricato possente e turrito. Nel 1627 il mulino è acquisito dal patrizio Francesco Marcello, già proprietario del territorio vicino, detto Bando Scodelle. Lasciato poi in eredità ai suoi famigliari con clausola di fidecommesso, rimarrà legato alla stessa famiglia per quasi trecento anni. Nei primi anni del Novecento fu acquistato dalla famiglia Bornancini, ultima proprietaria del mulino di Cinto
Fra i tanti mugnai che si avvicendano nella conduzione del mulino c’è da segnalare un antenato della famiglia Bornancini, di nome Gasparo: nell’anno 1715, stipula con i Marcello un contratto di “affitto perpetuo” della “roda con li suoi sestoni da pillar”. Fra i più recenti sono invece da ricordare Giacomo Zadro che condusse il mulino fino al 1951 e Giuseppe Marcorin, l’ultimo mugnaio.
foto 2: mulino di cinto in una foto anni '20
In una relazione del 1875, nel periodo in cui è condotto da Sebastiano Bronzin, il mulino viene descritto nel seguente modo:
È animato dalle acque del canale, Cao-maggiore, la cui portata media si calcola, di litri 900. A monte, il canale scorre tortuoso e l’acqua vi è mantenuta da spesse sorgenti e dalle colatizie dei prati e campi circostanti. Dispone l’opifizio molino di quattro ruote idrauliche verticali. I motori sudetti comunicano il movimento alle macine per ingranaggi semplici di scudo e lanterna e sono destinati i numero 1.2.3. alla macinazione del granoturco ed il numero 4 alla macinazione del grano. Habbi pure altro opificio con due ruote idrauliche verticali, l’una movente n. 5 pistelli per rompere scorze [si macinava cortecce di pino e di rovere, per tingere le reti da pesca e per conciare pellami] l’altra movente n. 8 pistelli per pilatura del riso. (...) A monte, a circa cento metri havvi un canale scaricatore che percorrendo una linea curva si riunisce al canale principale a 300 metri circa a valle dell’opificio; l’acqua nel caso di sovrabbondanza viene smaltita da questo canale nonché, da paratoie di scarico conducenti alla pescheria, a valle il canale si apre in un vastissimo bacino (…).
Il mulino era anche punto di riferimento della vita sociale del paese, in un altro documento datato 19 agosto 1925, si denuncia un eccessivo afflusso di persone e animali:
foto 3: lavandaie di cinto nel lavatoio del mulino, foto anni '50
(...) constatando che per il continuo affluire di quadrupedi all’abbeveratoio a mattina del mulino, i quali quadrupedi si fanno entrare nel canale attaccati molte volte ai carri; per l’affluire specie in questa stagione delle scrofe e dei suini al bagno e per l’affluire delle lavandaie le quali per la incostante stabilità del filo d’acqua non hanno un punto fisso e ci urtano con carriole e carretti, si è fatto franare la diga del fiume riducendo il cortile un lago d’acqua rendendolo impossibile alla manovra dei carri addetti allo scarico e carico del mulino.
Ma il mulino può essere anche oggetto di svago come scrive Mara Marzinotto in un suo testo:
Il mulino era anche fonte di divertimento per i numerosi ragazzi che andavano a fare il bagno nelle acque antistanti la pescheria. La pescheria era un’altra fonte di reddito per i gestori che durante “le montane” riuscivano a catturare decine di chili di anguille che venivano tenute in vivai fino all’arrivo di Turchetto, il commerciante dei “bisati”.
Michele Zacchigna: La palude di Cinto, una lite giudiziaria del tardo medioevo friulano. Metodi e Ricerche, n. 2, 1982.